Teoria della psicopatologia
Teoria della psicopatologiaDal punto di vista dell’ACT e della RFT, mentre i problemi psicologici possono emergere dalla generale assenza di abilità relazionali (ad esempio nel caso del ritardo mentale), una fonte primaria di psicopatologia (così come un processo esacerbante l’impatto di altre fonti di psicopatologia) è il modo in cui il linguaggio e la cognizione interagiscono con contingenze dirette per produrre un’incapacità nel persistere o nel cambiare il comportamento a favore di fini di valore. Questo tipo di inflessibilità psicologica nell’ACT e nella RFT viene vista come risultato della debolezza o di un inutile controllo contestuale sugli stessi processi linguistici, e il modello di psicopatologia è così legato punto per punto all’analisi fornita dalla RFT. Questo produce una teoria clinica accessibile, di medio livello, limitata a principi di base più astratti.
Un processo centrale che può condurre alla patologia è la fusione cognitiva, che si riferisce alla dominanza di funzioni che regolano il comportamento attraverso reti relazionali, basate in particolare sull’incapacità nel distinguere il processo e i prodotti della risposta relazionale. In contesti che nutrono tale fusione, il comportamento umano è guidato più da reti verbali relativamente inflessibili che dal contatto con contingenze ambientali.
Questo funziona in alcune circostanze, ma in altre aumenta l’inflessibilità psicologica in un modo non salutare. Come risultato, le persone possono agire in modo incoerente con ciò che è rilevante per i propri valori e obiettivi. Dal punto di vista dell’ACT e della RFT, la forma e il contenuto della cognizione non è direttamente fastidioso, a meno che le caratteristiche contestuali portino questo contenuto cognitivo a regolare le azioni umane in un modo controproducente.
I contesti funzionali che tendono ad avere tali effetti deleteri sono largamente sostenuti dalla comunità verbale (ad esempio lo stimolo verbale minaccioso “la vita è senza speranza”).
Un contesto in cui prevale la ricerca delle cause, basa l’azione o la mancanza d’azione eccessivamente sul costrutto “causa” del proprio comportamento, specialmente quando questi processi si focalizzano su cause non manipolabili come gli eventi privati. In tale contesto quindi il controllo esperienziale incentrato sulla manipolazione degli stati cognitivi o emozionali diviene scopo primario e metro per il successo nella vita e prevale la fusione cognitiva. Essa appoggia l’evitamento esperienziale nel tentativo di alterare la forma, frequenza, o sensibilità situazionale agli eventi privati anche quando questo causa un danno comportamentale.
L’evitamento esperienziale è basato su un processo linguistico naturale che è amplificato dalla cultura in un focus generale sul “sentirsi bene” ed evitare il dolore. Sfortunatamente, i tentativi di evitare gli scomodi eventi privati tendono ad aumentare la loro importanza funzionale, sia perché essi diventano più salienti, sia perché questi sforzi di controllo sono legati verbalmente a conseguenze concettualizzate negativamente, e così tendono a restringere la gamma di comportamenti possibili.
La richiesta sociale del cercare la causa e l’utilità pratica del comportamento umano simbolico conducono la persona a tentativi di capire e spiegare gli eventi psicologici anche quando ciò non è necessario. Il contatto con il momento presente diminuisce nel momento in cui le persone iniziano a vivere “nelle loro teste”, così il passato e il futuro concettualizzati, e il sé concettualizzato, guadagnano maggior potere di regolazione del comportamento contribuendo ulteriormente all’inflessibilità. Per esempio, diviene più importante sapere chi è responsabile del dolore personale, che non vivere più efficacemente con la storia che si ha; può essere più importante difendere il proprio punto di vista verbale (es. fare la vittima, non essere mai arrabbiato, etc.) che impegnarsi in modalità più funzionali di comportamento che non concordano con queste verbalizzazioni. Inoltre, finché le emozioni e i pensieri sono utilizzati come giustificazioni per altre azioni, la ricerca della causa porta la persona ad incrementare ulteriormente l’evitamento esperienziale. Ancora una volta il risultato è l’inflessibilità psicologica.
Tutto ciò significa che i valori cedono il posto a obiettivi più immediati di essere a posto, apparire belli, sentirsi bene, difendere un sé concettualizzato, e così via. In questo modo le persone perdono il contatto con ciò che vogliono nella vita.
Emergono pattern di azioni che gradualmente dominano il repertorio della persona e che sono svincolate dalla qualità di vita desiderata nel lungo termine. I repertori di comportamento si riducono e diventano meno sensibili a tutto ciò che permetterebbe di intraprendere azioni in direzione dei valori.
Perché il linguaggio crea sofferenza?
All’età di 16 mesi o forse anche prima, i bambini piccoli imparano che se un oggetto ha un nome, il nome si riferisce all’oggetto (Lipkens, Hayes, e Hayes 1993). Le relazioni verbali che gli umani imparano in una direzione, le derivano nelle due direzioni. Nel corso degli ultimi 25 anni, i ricercatori hanno cercato di dimostrare lo stesso comportamento in altre specie animali con risultati molto limitati e discutibili (Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001). Questo produce un’enorme differenza nella vita delle persone in confronto a quella degli animali.
Le abilità di linguaggio mettono l’uomo in una posizione speciale: semplicemente dicendo una parola si evoca l’oggetto che si è nominato. Ad esempio, se si prova a dire: “ombrello” cosa viene in mente? Bene, questo è solo un piccolo esempio innocuo. Ma si consideri cosa vorrebbe dire tutto ciò se il significato dell’oggetto fosse spaventoso: ogni cosa che ricorda quel nome evocherebbe paura. Sarebbe come se un cane, per avere paura, avesse bisogno non di un calcio nel momento presente ma del pensiero di prendere un calcio. Questa è esattamente la situazione in cui si trovano gli esseri umani dotati di linguaggio.
Ecco un altro esempio. Prendete un momento per pensare alla cosa più vergognosa che abbiate mai fatto. Cosa avete appena provato? È molto probabile che, subito dopo aver letto la frase, abbiate provato un senso di paura, resistenza o vergogna. Tutto ciò è successo leggendo semplicemente ciò che c’è scritto qui. Questo perché le relazioni verbali che gli esseri umani apprendono in una direzione, la derivano nelle due direzioni: essi hanno cioè la capacità di temere qualcosa come simbolo di qualcos’altro.
L’etimologia della parola “simbolo” significa “riflettere la stessa cosa”; infatti avete reagito alle scritte su queste pagine perché le parole che avete appena letto vi hanno probabilmente rimandato ad una situazione vergognosa del vostro passato.
Come sarebbero le cose se questo tipo di relazioni non esistesse? Il cane evita il dolore cercando di evitare i piedi che possono calciare. Ma come può fare una persona a evitare il dolore se in qualunque momento e in qualunque luogo esso può essere riportato alla mente?
Non solo noi non possiamo evitare il dolore evitando le situazioni dolorose (il metodo adottato dal cane), ma anche le situazioni piacevoli possono evocare dolore: supponiamo che una persona abbia avuto un lutto recente e che si trovi di fronte ad un bellissimo tramonto. A cosa penserà?
Per gli essere umani è improbabile che l’evitamento di ciò che suggerisce dolore psicologico riesca ad eliminare i sentimenti difficili perché tutto ciò che è necessario per riportare alla mente un evento è un suggerimento arbitrario in grado di evocare la giusta relazione verbale. L’esempio del tramonto dimostra questo tipo di processo evocando una storia verbale in cui il tramonto riporta alla mente il fatto che lo si vorrebbe condividere con la persona cara che non c’è più.
Il problema è che gli spunti che evocano le relazioni verbali possono essere qualunque cosa: l’inchiostro su un foglio di carta che fa emergere la parola vergogna, o un tramonto che rimanda ad una recente perdita.
Quando si trovano nella disperazione, gli esseri umani, cercano di compiere un’azione molto logica: cercano di evitare il dolore.
Sfortunatamente, alcuni metodi di evitamento del dolore sono essi stessi patologici. Per esempio, l’uso di droghe che creano dissociazione psichica riduce temporaneamente il dolore causando però nel tempo danni importanti. La negazione e l’intorpidimento ottenuto ridurranno dunque il dolore nell’immediato, ma porteranno ad una sofferenza più grande in futuro.
La costante possibilità di provare dolore psicologico è un peso che ci portiamo dietro e con cui dobbiamo fare i conti. Questo non significa che ci si debba rassegnare ad arrancare attraverso una vita di sofferenze. Il dolore e la sofferenza sono due cose diverse e l’ACT sostiene che ci sia un modo per cambiare la propria relazione con il dolore e per vivere una buona vita (Hayes e Smith, 2005).
Giovanni Miselli